di Antonino Napoleone, Giuseppe Scarlata | 31 Gennaio 2021.

L’evoluzione è una teoria formulata per la prima volta da Charles Darwin due secoli fa, per spiegare il meccanismo di selezione naturale che porta gli organismi di una stessa specie ad acquisire mutazioni nel tempo, a scopo adattativo o migliorativo nella misura in cui sono necessarie per sopravvivere all’ambiente esterno. Questo fenomeno suscita fascino ed estrema curiosità, ma non è privo di limiti e perplessità, soprattutto perché non ha caratteristiche omogenee o universali, ma specifiche e applicabili singolarmente ad ogni organismo. I ricercatori già da tempo hanno asserito come questo meccanismo si attui con tempistiche diverse sia su scala macroscopica che microscopica, e la conoscenza e la tecnologia disponibile ci consente oggi di decifrare e distinguere anche minimi cambiamenti o mutazioni. Questo scopo ha costituito un vasto e intricato ambito di ricerca, la genomica, proprio perché il segreto e la risposta di queste mutazioni si trova a livello del genoma costituito da DNA (o RNA).

L’analisi genomica di SARS-CoV-2 e la proteina Spike

L’analisi genomica di SARS-CoV-2 ha rivelato che si tratta di un microrganismo che muta velocemente, e di recente sono state individuate varianti del primo ceppo studiato e sequenziato a inizio del 2020 (leggi anche La variante inglese del virus: cosa c’è da sapere). Sequenziare il genoma equivale a creare un “indice” o un “elenco” di ogni singola componente del DNA (o RNA) da analizzare. Le ultime letture del genoma di SARS-CoV-2 hanno evidenziato come ci si trovi difronte a degli “elenchi” con delle porzioni leggermente diverse rispetto ai risultati ottenuti un anno fa, a causa di cambiamenti genetici o mutazioni che interessano soprattutto la proteina Spike del virus. Il significato biologico e strategico di questa proteina e delle mutazioni che ne stanno causando il cambiamento o l’evoluzione, per riallacciarci a quanto detto prima, è di centrale importanza (Figure 1).

Viral sequences: Bar chart showing sequence counts for 31 countries or regions.
Figure 1. Le mutazioni di SARS-CoV-2 individuate ad oggi grazie all’analisi genomica del virus. Questi dati sono utili a capire come si sta evolvendo il virus in seguito alle mutazioni accumulate nel corso del tempo.


Ci sono tre prospettive da analizzare:

  • Dal punto di vista del virus

Il percorso evolutivo dei virus (specialmente i virus a RNA come il Coronavirus) è particolarmente dinamico e intricato, poco decifrabile e prevedibile da parte degli scienziati, e comporta l’accumularsi di mutazioni che nel tempo innescano cambiamenti di natura strutturale. La proteina Spike del virus ha subito dei cambiamenti strutturali, a carico di alcuni amino acidi che la compongono e questi riflettono una funzionalità alterata. Questo si traduce in delle varianti del virus che possono essere associate ad una maggiore trasmissibilità o infettività (Figura 2). Viceversa, non è da escludere l’ipotesi opposta, ovvero che possa avvenire una transizione verso varianti innocue assimilabili ad altri coronavirus umani endemici causa dei comuni raffreddori, come ipotizzato in un recente studio pubblicato sulla nota rivista Science1.

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Figura 2. In questo esperimento sono state prese in esame due mutazioni del virus (D614 e G614) entrambe riscontrate nelle varianti Inglese e Sud Africana. I test sono stati effettuati su cellule umane delle vie respiratorie per analizzare se queste mutazioni alterassero l’infettività e la trasmissibilità del virus. I risultati hanno mostrato che queste mutazioni sono associate ad una maggiore infettività e trasmissibilità del virus.
  • Dal punto di vista della vaccinazione

La principale strategia adottata dalle compagini farmaceutiche per sviluppare un vaccino efficace (leggi anche Qual è l’ingrediente segreto de vaccini di Pfizer e Moderna?), è stata quella di utilizzare gli antigeni virali provenienti dalla proteina Spike, per procurare l’immunizzazione contro SARS-CoV-2. I dati preliminari pubblicati dalle aziende Pfizer e Moderna dopo i trials clinici di fase 3, hanno evidenziato come i rispettivi vaccini siano ben tollerati ed efficaci al 95% dopo la seconda somministrazione. Dalle analisi genomiche è stato dimostrato come il più alto tasso di mutazioni sia proprio a carico della proteina Spike del virus, quindi aumentano i punti interrogativi sull’efficacia della vaccinazione, se dovessero emergere cambiamenti strutturali nel virus tali da compromettere gli sforzi realizzati finora per sviluppare e distribuire il vaccino alla popolazione.

  • Dal punto di vista del sistema immunitario

Diversi studi sono in corso per valutare come il sistema immunitario reagisce all’infezione da SARS-CoV-2, e soprattutto come varia la risposta nei soggetti affetti e quanto dovrebbe durare la memoria immunologica (leggi anche La via verso l’immunità: cosa è stato e cosa ci aspetta?). Inoltre, i microrganismi sviluppano dei meccanismi di elusione del sistema immunitario (immune escape), come strumento per passare inosservati e superare le barriere di difesa all’interno dell’organismo ospite. Di recente, l’immunologo italiano Rino Rappuoli ha condotto uno studio per individuare le mutazioni virali in grado di evadere la risposta del sistema immunitario. Lo scopo consisteva nell’analizzare in laboratorio come reagisse il virus a contatto con gli anticorpi neutralizzanti prelevati dai pazienti Covid-19 convalescenti. È stato visto come solo dopo 90 giorni, il virus aveva maturato 3 diverse mutazioni in grado di renderne più impervia l’eliminazione da parte degli anticorpi. Le stesse mutazioni individuate sono state riscontrate nelle già note varianti Inglese e Sud Africana. Questo suggerisce che la risposta immunitaria specifica contro il virus, costituita dagli anticorpi, è diretta e innescata in larga misura da una piccola porzione della proteina Spike. Se così fosse, sarebbero cospicue le implicazioni e i fattori da valutare, soprattutto in prospettiva dello sviluppo di nuovi approcci terapeutici e profilattici, della possibilità di reinfezione nei soggetti già guariti, così come nella velocità da parte del virus di accumulare mutazioni. Quindi scandagliare il profilo immunologico rappresenta la chiave di lettura appropriata per risolvere i numerosi interrogativi ed elaborare una soluzione efficace a lungo termine.

Quali implicazioni si prospettano per il vaccino e l’immunizzazione?

I ricercatori stanno cercando di capire come mai le nuove varianti identificate nel Regno Unito e in Sud Africa si stiano diffondendo così rapidamente e se queste possano ridurre l’efficacia del vaccino già in fase di distribuzione o superare le difese immunitarie degli individui già guariti, comportando un’ondata di reinfezioni. Da un recente studio sono arrivati dati incoraggianti poiché le mutazioni riscontrate nelle due varianti Inglese e Sud Africana del virus, non hanno alterato l’attività neutralizzante degli anticorpi prodotti dalla persone che hanno ricevuto il vaccino di Pfitzer/BioNTech, quindi la risposta immunitaria innescata dal vaccino sembra mantenere i livelli di efficacia riscontrati in precedenza. Altre ricerche sono in corso per valutare l’effetto di altre mutazioni nelle varianti del virus. Va sottolineato che il vaccino stimola una risposta immunitaria complessa, che non comprende solo lo sviluppo di anticorpi neutralizzanti contro il virus (anche la risposta dei linfociti T svolge un ruolo importante ed è in corso di valutazione), e che comunque servirebbe a ridurre drasticamente la gravità dei sintomi e il tasso di mortalità.
Per quanto riguarda il rischio di reinfezione, ancora non vi è una risposta definitiva, ma si possono fare delle considerazioni in base a quanto già si conosce nel campo dell’immunologia. Infatti, il sistema immunitario in questi casi può procurare protezione in tre modi:

  1. Nel modo più robusto, in quanto l’immunità neutralizzante maturata dopo la guarigione, potrebbe impedire la replicazione del virus e rendere l’ospite refrattario alla reinfezione. L’efficacia immunitaria dipende dalla suscettibilità e predisposizione dei singoli individui.
  2. L’immunità non previene la reinfezione, ma può attenuare la patologia e/o ridurre la trasmissibilità o l’infettività del virus.
  3. La riesposizione al virus entro un anno dall’infezione primaria causa una reinfezione, ma in questo caso si presentano sintomi più lievi e la guarigione avviene più velocemente.

In aggiunta, va considerata l’età in cui avviene l’infezione primaria, perché la risposta immunitaria nei primi anni di età varia rispetto agli individui adulti, e in quest’ultimi, la riesposizione al virus può fungere da richiamo per il sistema immunitario, ad indicare che anche a distanza di anni la memoria immunologica non viene completamente persa.


Conclusioni

Quando i tassi di contagio hanno inasprito la situazione a livello globale, i ricercatori hanno risposto riunendo e ottimizzando le risorse e le competenze, e nell’ultimo anno l’evoluzione della scienza è stata incredibile per velocità e risultati apportati, si è fatta di necessità virtù.
Virologia e immunologia sono due facce della stessa medaglia, e per trovare delle applicazioni e delle soluzioni tecnologiche non si può prescindere dal fare passi avanti in entrambi gli ambiti per comprendere al meglio le conseguenze di nuove potenziali mutazioni del virus e quale meccanismo di risposta sarà più adeguato a fornire una protezione efficace. Dal punto di vista evolutivo, si aprono nuovi quesiti riguardo l’interazione fra virus e ospite umano e quali dinamiche intercorreranno fra la protezione immunitaria e l’infettività del virus. Il distanziamento sociale, le misure restrittive e la distribuzione del vaccino sono strumenti potenti di pressione nei confronti del virus. L’evoluzione si attuerà col tempo su scala macroscopica e microscopica, e sarà il sistema immunitario a giocare un ruolo chiave in questa transizione. Andate a spiegarlo ai no-vax.

Bibliografia

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